Andrea Vannicelli, La tentazione del racconto: le novelle del primo Papini tra simbolismo e futurismo (1894-1914), Cesati, 2004

 

Il panorama della letteratura italiana del primo Novecento presenta ancora, pur dopo le varie e complesse esplorazioni che la storiografia contemporanea vi ha condotto, numerose zone d’ombra: su una di esse, le novelle del giovane Papini, l’autore ha voluto proporre un’indagine minuziosa e ricca di dati, ma al tempo stesso informata da un’interpretazione globale.

Giovanni Papini (1881-1956), lo scrittore italiano che in vita conobbe affermazioni e contrasti, ha subíto dopo la morte molto spesso un disconoscimento della sua statura d’artista e di uomo. A più di quarant’anni dalla sua scomparsa, la sua figura torna ad imporsi come quella di uno dei grandi protagonisti della letteratura italiana della prima metà del Novecento. È chiaro che la prima cosa che il critico deve fare è scremare la letteratura papiniana dall’elemento stroncatorio e provocatorio, da quella dimensione istrionica che ne costituisce indubbiamente un limite. Il suo ruolo di animatore ad oltranza, perciò sempre mischiato a polemiche, ha fatto spesso sopravvalutare in Papini il polemista a discapito del creatore, che seppe innovare anche nel campo della narrativa. Molte volte la critica letteraria lo ha trattato con la stessa parzialità con la quale egli aveva stroncato tanti suoi contemporanei: si è voluto fare di Papini il simbolo positivo o negativo di una generazione o di una tendenza[1]. Il fatto è che pochi hanno portato, come Papini, nella vita delle idee, anche attraverso la fantasia, un impeto tanto forte: questo carattere passionale, mentre costituisce un elemento del suo successo, ne circoscrive tuttavia la portata.

Forse soltanto oggi – lo osservava già nel 1982 Giorgio Luti - è possibile tentare di ristudiare l’opera narrativa di Papini con serenità, basandosi sui testi, sulle opere, sui documenti, perché ormai sono lontani i tempi in cui era in voga una critica che aveva tra i suoi presupposti l’ideologia (quale che essa fosse). Basterebbe questo a giustificare questo studio, che mira a riscoprire uno degli aspetti della poliedrica attività papiniana, quello della narrativa, oltre la patina dei pregiudizi e travisamenti. L’intento principale del saggio di Andrea Vannicelli – al di là delle puntuali analisi testuali – è di mostrare che Papini non è soltanto un pensatore vivace, ma anche un sorprendente narratore; si aggiunge qui al vario (ma ancora incompleto) mosaico degli studi sulla creatività artistica papiniana, un importante e significativo tassello. Un tassello che permette pure di elaborare un quadro d’insieme della cultura di Papini, nelle sue ascendenze italiane ed europee, dalle iniziali frequentazioni simboliste all’interesse per il futurismo.

«Io – ha scritto Giovanni Papini – come artista, come scrittore, ho creato un genere, nuovo, in Italia, di storie assurde, inverosimili, irreali.» «Mi assediano le storie assurde, i progetti bizzarri, le avventure incredibili» (Un uomo finito). Le prime quattro raccolte di racconti papiniani, Il tragico quotidiano (1906), Il pilota cieco (1907), Parole e sangue (1912) e Buffonate (1914) si situano in una fase particolarmente ricca dell’attività dello scrittore: nel 1903 fonda, con l’aiuto di Giuseppe Prezzolini, la rivista «Leonardo» (che durerà sino al 1907), mentre collabora al «Regno» di Corradini; nel 1906 pubblica Il crepuscolo dei filosofi. Successivamente partecipa all’esperienza “vociana”; dà vita nel 1911, con Giovanni Amendola, alla rivista «L’Anima»; nel 1913 e sino al 1915 aderisce al futurismo, fondando con Ardengo Soffici «Lacerba».

Nel Tragico quotidiano  e nel Pilota cieco Papini tenta di porre al centro del racconto una serie di contenuti filosofici, di drammatiche antitesi, in un dualismo disperante e inconciliabile. Quello che interessa lo scrittore non è tanto il dato narrativo: rifiuta quel dato, impegnandosi in una diversa fisionomizzazione della pagina, e riduce il racconto ad un clima, ad una serie di rapporti, ad un incontro (che talvolta diviene scontro) tra i personaggi, che sono tipi o simboli più che veri e propri caratteri. L’autore prende le distanze in questo modo dalla narrativa realista, cerca di evàdere dai limiti imposti dalla novella tradizionale, dalla vieta ricerca caratterologica imposta dalla narrazione ottocentesca. Dal punto di vista tematico l’autore mette in luce il dramma della riconquista della propria personalità, che è il grande tema della letteratura italiana del primo Novecento. Papini riflette anche sulla dialettica tra realtà e finzione (che caratterizza tutto il primo Novecento italiano - cfr. in particolare la novella L’ultima visita del gentiluomo malato). Ci sono altresì alcuni spunti esoterici provenienti dall’irrazionalismo romantico e decadente (ben presente all’epoca nella cultura italiana). Dal punto di vista stilistico c’è un gusto per la parola aulica, per la frase ridondante e un po’ leziosa, per la musicalità del periodo, che è certo una conseguenza dell’ammirazione che Papini ha per D’Annunzio e per vari poeti simbolisti.

Se negli “antiracconti” del 1906 e del 1907 si assiste a un accanito prosciugamento delle persone in tipi, e all’azzeramento di ogni possibilità di realismo psicologico, storico e ambientale, in linea con il carattere “metafisico” delle stesse novelle, le cose cambiano molto nei testi di Parole e sangue, certamente anche perché Papini ha voglia di cambiare (il cambiamento è nella sua natura di giovane avanguardista). In Parole e sangue il «pilota cieco» cambia rotta, e si avvicina di nuovo ad un tipo di testo realista, fecondato dalle proprie teorie filosofiche. Abbandona gli scenari metafisici, indeterminati, e (grazie anche ad una personale esperienza della vita in campagna e al riavvicinarsi ad una certa tradizione letteraria toscana che Papini definisce «pietrosa») mette sulla pagina paesaggi toscani e fiorentini. Costruisce trame a volte complesse, scopre il gusto della costruzione del racconto. A livello stilistico l’autore approda ad una maggiore “concretezza” verbale. Non più toni dannunziani, ma piuttosto uno stile medio, che disegna con precisione eventi e luoghi, e che si spinge sino all’imitazione, nella novella Una morte mentale, del parlato fiorentino d’inizio Novecento. Ora il modello, almeno sul piano della teoria, è Carducci, il Carducci che alla poesia sfocata dei suoi giorni opponeva con sempre maggiore consapevolezza l’esigenza d’un immaginare «plastico», «icastico», «oggettivo» (sono tutti frequentissimi aggettivi usati da Carducci). Insomma, in Parole e sangue Papini abbandona in gran parte il filone fantastico della sua opera, e cerca soprattutto di dare al lettore l’illusione realistica. Grazie alla rilettura di vari narratori italiani ed europei l’autore elabora nuove tecniche narrative e sviluppa una scrittura che non è più manierata come in molti testi precedenti, ma che si attaglia agli oggetti e alle persone descritte con sobrietà e spirito analitico. Papini ricerca effetti drammatici, e li ottiene tra l’altro riducendo al minimo le intrusioni del narratore nel corso della novella, lasciando che la storia – in un certo modo – si racconti da sé, e che i personaggi vivano vita autonoma. Questi risultati non esauriscono però i tentativi papiniani nell’ambito della novella. L’autore desidera ancora creare nuove forme, dar vita a testi diversi. Questa sete di novità lo porta ad abbracciare per alcuni mesi – in modo molto personale ed “eterodosso” -, nel 1913, l’esperienza futurista, e ciò ha delle conseguenze anche sul piano del racconto.

In Buffonate Papini tende al massimo la corda del suo gioco di ardimentose misure e di spericolati accostamenti nello sforzo di evàdere dai limiti imposti sia dal racconto di stampo simbolista che da quello di stampo realista, in nome di quel futurismo al quale si è da poco affiliato. In quest’ultima raccolta però Papini si presenta più come uno scontento e un distruttore che come un rinnovatore. In sostanza la principale innovazione di Buffonate è che l’elemento ludico cresce enormemente di proporzioni (conformemente all’“estetica del saltimbanco”, che i futuristi “lacerbiani” - Palazzeschi, Soffici e Papini – contrappongono alla rigida precettistica di Marinetti e compagni).

Nel breve arco che va dal 1894 al 1914, premuto da tante e così diverse suggestioni, Papini riesce brillantemente ad esprimere nella sua novellistica il dramma di una realtà in crisi, che costituisce la fondamentale occasione della sua pagina. Nel Tragico quotidiano e nel Pilota cieco afferma l’“antiracconto” al posto della narrazione tradizionale, l’“antipersonaggio” al posto del personaggio, l’imponderabile mondo del soprannaturale al posto del mondo reale. Successivamente, con Parole e sangue, Papini giunge ad un racconto e ad un personaggio più tradizionali, sulla scorta di esempi della tradizione letteraria ottocentesca. Buffonate mette in crisi simbolismo e realismo, in un gioco di negazione che diviene anche distruzione di tutto quanto l’autore ha scritto in precedenza. Non si può dire che nei racconti successivi al 1914 la vena dello scrittore si rinnovi: in fondo non fa che ripetersi stancamente, tranne qualche felice eccezione. Si ha nettamente l’impressione che a partire dal 1921 l’arte letteraria, intesa come fuga dal reale o esercizio stilistico-sperimentale, interessi meno Papini, più attento ormai alla letteratura come ricerca di senso e di valore, ad una scrittura che sia espressione di uno stile di vita e del significato dell’essere: la poesia gli sembra più adatta a svolgere questo compito che non la prosa.


 

[1] Cfr. per esempio il profilo estremamente severo che Giorgio Barberi Squarotti ha dedicato a Papini in Grande dizionario enciclopedico, terza edizione interamente riveduta e accresciuta, volume XIV, UTET, Torino 1970, pp. 105-106.