Mortura

 

Da un anno appena avevo sputato sul viso divino di Gesù, peggio dei servitori di Cajafa, quando fu ammazzato verso un oriente un arciduca e la guerra cominciò.

Non volendo nasconder nulla - e questo punto è un de' più vergognosi - dirò che sul primo la carneficina che l'Europa, tra cupa e baldanzosa, avviava, mi fece quasi piacere. Chi mi ha seguito fin a ora comprenderà il perché senza tante parole. A quel tempo ero cristiano nel senso che Tacito dava, nella sua ignoranza, a quella parola; sentivo, e più ancora che sentirlo lo squinternavo, l'«odium humani generis». Gli uomini, per me, eran bruti lascivi, avari e feroci, bruti incurabili: che si ammazzin dunque fra loro, dal momento che non c'è un Dio a fulminarli.

Ma quasi subito un altro sentimento, più antico e radicato, mozzò codesta neronità: l'amore per l'Italia. Se l'Italia poteva entrare nel terribile gioco e riprendere l'opera malcondotta e malfinita del '66, la guerra prendeva ai miei occhi tutto un altro aspetto. Si aggiunga che per i tedeschi avevo sempre avuto - fin dai primi del secolo, e non per l'appunto nel '14 come accadde a molti - più repugnanza che ammirazione. Come poesia, levato qualcosa di Goethe e di Heine, mi avevan fatto goder poco; la loro filosofia mi aveva sempre trovato avverso, e nel mio libro, difatti, sopra sei filosofi squartati quattro eran tedeschi; l'erudizione affastellata, e quasi inadoprabile de' loro albagiosi dottori era stata per me come il fumo agli occhi; e quella adorazione della forza, della conquista, della prepotenza, della macchina e della banca faceva rabbia al mio spirito di mistico latino. Si aggiunga che la Germania si gloria di Lutero ed io, anche non cattolico, avevo più che ad uggia quell'esoso frataccio stonacato; si gloria di Marx e non avevo mai potuto mandar giù il suo messianismo giudaico rimmantellato di economia politica; si gloria di Bismarck e quello scaltro e crudele mastin di guardia della casa di Prussia era segnato nelle prime carte del calendario delle mie avversioni.

Insomma, sia per il lievito garibaldino paterno, sia per il nazionalismo della prima gioventù, per amor dell'Italia e odio della Germania, finii tra i primissimi che sostennero la necessità d'entrare in guerra. Quell'afa smaniosa che precedette i quattr'anni sanguigni ai giovani tutti era divenuta insopportabile; la mediocrità a pancia all'aria nel cresciuto benessere, si contentava di un governo ch'era ridotto a una burocrazia dominata volta a volta dagli speculatori e dai demagoghi; il Parlamento pareva diventato il caffè di Don Marzio, anche la corruzione era misera come eran misere l'anime, le parole, le passioni. Gli ultimi eroi, gli ultimi poeti eran morti; D'Annunzio fuoruscito nelle Lande; una banda di lunatici nemici della luna aveva buttato giù le torri d'avorio per dare aria nuova all'arte e intanto si trastullava a fare il gesto di Vanni Fucci alle bestie serie nei giornali e nei teatri; gli Astolfi della Angelica plebe, divenuti capitalisti d'uomini, avevan trasformato la fede de' primi apostoli in una redditizia industria sussidiaria dallo stato. Non si respirava più: la maturazione volgeva in marciame. Si aspettava una rivoluzione e venne la guerra.

A me, mezzo cieco, non fu permesso esser soldato; per due volte, in due ospedali, a Firenze e a Roma, dopo avermi misurato ben bene, mi mandaron via dicendo di non aver bisogno di me. Rimasi, dunque, spettatore per forza, ma di malavoglia. Lo stato d'animo di chi combatte, o qualcosa fa nelle vicinanze della battaglia, è assai diverso da quello di chi guarda lontano, e non vive i particolari ma vede meglio l'insieme, e non è divertito o svigorito dalle fatiche ma si affatica lo stesso col rodìo del pensiero e le corse della fantasia. Chi guerreggia ha il dovere d'ubbidire e di vincere: ad altro non bada e non pensa, per sua e nostra fortuna. Ma colui ch'è in disparte - e non è un trafficante profittatore o un verbivendolo o un ventre sopra due gambe - soffre forse più di quelli che soffrono al campo. Dico spiritualmente, e per uno che voglia bene al paese dov'è nato, anche a patto d'essere ingiusto, come avviene di tutti gli amori fuor di quello divino.

Via via che la guerra si allargava ma nello stesso tempo, come avviene dell'alluvioni che s'impaludano, si stagnava senza risolversi, a piccole mosse innanzi e indietro, dove di evidente non c'era che il numero crescente dei morti e degli stroppiati, io mi sentivo sempre più a disagio. Questa guerra che a poco a poco s'appiccava, decimandola, a tutta l'Europa e si spandeva qua e là sugli altri continenti, e scompigliava, imbestiava, affoscava tutto il mondo, mi appariva come un invasamento troppo perseverante, come il disfarsi precipitoso delle antiche unità civili, dell'Europa, della Cristianità, della Cosmopoli degli spiriti. Mi perseguitava come un traboccamento dell'inferno, mi opprimeva come un incubo. Un po' per volta, nell'universale massacro che non giovava neppure a sboccare in una grande vittoria risolutiva, amici e nemici, alleati e neutri, si confondevano in una sterminata mandria d'inferociti distruggitori di vite, di città, di ricchezze, d'ideali: un immane sciupìo di sangue e di anime che non accennava a finire.

Sentivo a tratti un rimorso che non so neppur descriver con fedeltà: a volte n'ero vergognoso, a volte l'accettavo come un principio di redenzione. Rimorso di aver consigliata la guerra e, nello stesso tempo, di vederla ora tanto diversa da quella che aspettavo; rimorso della mia inazione e rimorso di aver fatto, nella mia piccolezza, anche troppo; rimorso di aver preparato anch'io, col cinismo misantropico degli ultimi anni, quell'acciecamento spirituale che ora si sfogava nelle stragi; rimorso di sentirmi quasi complice, benché inerme, di quella forsennata devastazione di corpi, di cuori, di patrie; rimorso della mia impotenza a far sì che il sanguinolente flagello avesse fine.

 Il pensiero che mentre stavo colle mie figliole in casa mia, tra i miei libri, e il pane, sia pur misurato e inferigno, era ogni giorno sulla mia tovaglia tranquilla, milioni di uomini si accosciavano nelle trincee motrigliose, nelle buche, negli squarci, si acquattavano dietro le zolle, i luschi, i rialzi, si nascondevano nelle tane, nelle caverne, nei cunicoli, sudici fradici, melmosi, pidocchiosi, abbrezzati alla sizza vernina, ora avvampati dai solleoni, ad aspettare per giorni lunghi e più lunghe notti, un po' di pane o la morte, questo pensiero mi perseguitava come un castigo, come una vendetta. E i milioni che marciavano prigionieri famelici dentro le siepi di filo spinato; e i milioni che pativano nell'ambulanze, negli innumerevoli ospedali, amputati, martoriati, urlanti o, ancor più terribili, già caduti nella taciturnità dell'insensatezza e dell'agonia. Ad alcuni il viso ridotto un garbuglio di lividi brandelli, arse le pupille, rotti i denti, ludibrio da inorridire anche la pietà; altri colle mani, le braccia, le gambe tagliate, tronchi miserabili, resi schiavi della misericordia mercenaria; altri condannati alla demenza, alla sordità, a una notte eterna. E le notti infinite dei gementi, dei morenti, dei convalescenti; i miliardi di urli, di lacrime, di singhiozzi, di spasimi; tutto questo orrendo infinito dolore senza risposta! E il giorno che le bocche abbaianti e tonanti facevano, coll'annugolamento del fumo, simile alla notte; e la notte che le fiamme a migliaia illuminavano d'una fiaccolata omicida, quasi un giorno d'inferno; e in quei giorni tenebrosi e in quelle notti infuocate i branchi dei combattitori quasi senza odio a uccidere, quasi senza eroismo a morire. E i milioni che raspavano nei ventri e nei pozzi delle montagne, o s'affannavano nelle caserme manifatturiere a fabbricar nuovi arnesi di morte; e quelli che attendevano sul mare, e navigavano sotto l'acque, gli uni e gli altri, a ogni istante, incerti se non diverranno, un attimo più tardi, cadaveri galleggianti, sinistri relitti dell'oceano notturno. E le madri che non vedranno più il figliolo, i figlioli per sempre orfani, le spose, le sorelle, le amanti; tutte le tenerezze e le disperazioni dei rimasti, dei sopravvissuti.

La guerra non era dunque il nobile duello omerico, la giostra dei catafratti, la carica garibaldina; ma il macello scientifico, il massacro all'ingrosso, il sacrificio anonimo, la distruzione tenebrosa, la decimazione e mutilazione delle razze, l'industria universale della morte accelerata. Non riescirò mai a dire quanto soffrissi, senza manifestarlo a persona viva, in quei tempi. Cercavo di pensare ad altro e non mi riusciva. I giornali mi crucciavano e non potevo fare a meno di leggerli. I miei sonni erano inquieti, interrotti; le mie giornate oppresse, vaganti, inutili.

Sentivo in me, a ondate, rifluire lo spazio dell'universo, e non ero capace di sostenerlo, di accoglierlo tutto; uno sbigottimento corruccioso mi storceva l'anima: mi vergognavo d'essere uomo, mi vergognavo di non essere un Dio e di non poter finire, coll'alzar del dito, quella tremenda ubriacatura di carnefici torturati. Ognun di quelli ch'era in guerra soffriva di dolore suo, quello solo: io soffrivo il dolore di tutti.

Quel mio cinismo dei primi giorni era sparito, mutato in una pietà che non conoscevo, così acuta. Il cuore, dinanzi a quella piena immensa di mali, aveva sopraffatto e disfatto le ciurmerìe del cervello. Che il De Maistre cattolico e il Proudhon anarchico santificassero con profonde ragioni le guerre non m'importava: se l'intelligenza cedeva non cedeva la nuova tenerezza fraterna, che sorgeva in me, travolto dall'immaginazione in quella mai vista tormenta d'orrori.

Perché si odiavano gli uomini? Perché si uccidevano senza stanchezza né requie? Perché l'atroce guerra degli infelici contro infelici?

 

Giovanni Papini, La seconda nascita, Vallecchi, Firenze, 1958, pagg. 233-240

 


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