Non uccidere

  

Tra qualche secolo o qualche millennio – se il genere umano nel frattempo non sarà del tutto abbrutito o del tutto sterminato – questa nostra età presente, che a noi sembra superiore a tutte quelle che l’hanno preceduta, susciterà stupore e ribrezzo in quei lontani pronipoti che vorranno o dovranno, per ragioni di studio o di curiosità, occuparsi dei fatti nostri e dei nostri usi e costumi.

Non poche forme e abitudini della nostra vita muoveranno a schifo e forse ad orrore quei futuri storici ma io credo e ritengo che il maggiore scandalo della nostra civiltà, anzi la più terribile macchia e la più infame stoltizia apparirà ai loro occhi la pena di morte ancor oggi comminata e legittimata dalle consuetudini e dalle leggi in quasi tutti i paesi della terra.

Quei civili storici dell’avvenire sapranno certamente che l’Europa e l’America dei nostri giorni riconoscono l’origine divina dei dieci comandamenti tra i quali uno dei più essenziali ed imperativi è senza dubbio quello che ordina: «Non uccidere». I nostri pronipoti troveranno naturale, benché doloroso, l’omicidio commesso dai malfattori, dai delinquenti, dai frenetici, dai passionali, dai violenti, dai forsennati per motivi che vanno dall’odio del rivale all’avidità del lucro, dall’orgoglio ferito alla esasperazione della gelosia e della lussuria. Non assolveranno ma potranno comprendere gli omicidi commessi nel furore di una rissa, di una sommossa, di una battaglia. Ma saranno stupefatti ed esterrefatti nell’apprendere che certi uomini colti e calmi, disinteressati e ragionevoli, che avevano studiato filosofia e criminologia, umane lettere e divine scritture, che si dicevano e si credevano cristiani, potessero decidere a mente fredda, raccolti nella quiete delle camere di consiglio dei tribunali, che fosse troncata un certo giorno la vita di altri uomini, colpevoli forse ma certo malati e infelici. Il comandamento di Dio che proibisce di uccidere non consente e non ammette nessuna eccezione e scappatoia e tanto meno quando si tratta di uomini che rappresentano o dovrebbero rappresentare la giustizia, la ragione, la società e la civiltà.

Un malvivente sanguinario che ammazza una creatura umana ispira ripugnanza, paura e pietà, ma un giudice togato, laureato e stipendiato che un bel giorno, in nome di un codice, di un principio, di un re, di un partito, di un popolo, pronuncia una sentenza di morte e incarica un altro uomo, detto carnefice, di impiccare, di strozzare o strangolare, decapitare o fucilare o fulminare il condannato, sembrerà, a quei futuri studiosi del nostro tempo, qualcosa di incredibile, di inverosimile, di obbrobrioso e di sconcertante che confonde il pensiero, atterrisce il cuore e sconvolge l’immaginazione. Se un essere savio e religioso potesse credere che il miglior modo di punire l’assassino fosse quello di farlo assassinare a sua volta, cioè di imitarlo, a dispetto del divieto del Creatore, della logica e della carità, è la prova di una insania morale talmente assurda, feroce e diabolica che qualcuno di quei nostri posteri non vorrà credere ai suoi occhi dinanzi ai documenti che saranno rimasti delle costumanze di tutti i secoli della storia fino al nostro.

Eppure noi sentiamo annunciare ogni giorno, senza fremere né inorridire, che i tribunali di Nazioni cosiddette civili, in nome di Sua Maestà o del popolo, hanno ordinato di togliere, con spaventosi strumenti, la vita a due o sette o dieci creature umane che molto spesso non hanno ammazzato nessuno ma sono colpevoli soltanto di non avere le stesse passioni, opinioni o illusioni di coloro che in questo momento impugnano il bastone del comando. Soltanto un grande poeta come Victor Hugo sentì, più di un secolo fa, l’angoscia e l’abominio di questa orribile negazione della volontà di Dio e della pietà umana. Oggi quasi nessuno stupisce o protesta o ha il coraggio di gridare la sua indignazione contro la sanguinolenta selvaggeria. Noi siamo tutti, volendo o no, sapendo o no, complici silenziosi ma necessari del boia.

 

Giovanni Papini, Le felicità dell’infelice, Vallecchi Firenze, 1956, pagg. 107-110

 

 


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